Che Antonio Canova sia uno dei più grandiosi Artisti del
marmo della Storia, è un dato di fatto. Alcune sue Opere sono meno visitate di
altre, pur essendo universalmente riconosciute come patrimonio inestimabile
dell’Arte universale.
È il caso della Venere Italica, ispirata al concetto
della Venus Pudica, ritratta sempre nell'intento di celare la propria
bellezza con un telo.
Per realizzare quest’Opera, Canova utilizzò il suo consueto
“tocco diretto”, la particolare tecnica, mescolata a innegabili capacità
personali, di rendere l’idea della pelle, le morbidezze della carne e le meravigliose
sfumature proprie dell’Arte classica.
L’Artista utilizzò, sul marmo bianco di Carrara, un
particolare impasto morbido e di colore rosa tenue.
La Statua fu a lungo esposta a lume di candela, proprio per
esaltare la meraviglia del chiaro-scuro, l’avvenenza delicata delle forme e la
loro plasticità nello spazio.
All'interno della sterminata proposta degli Uffizi, dunque,
non si dimentichi di passare per la Galleria Palatina, dove questa Venere,
regina fra le statue in marmo, tenta di celare le sue grazie agli occhi del
pubblico.
Ercole Farnese – Glicone di Atene – Napoli, Museo Archeologico Nazionale
Il trionfo del coraggio, il riscatto dell’Uomo sulle prove
di divinità gelose e capricciose.
Glicone di Atene volle esaltare il mito del figlio di Zeus
che, superate le dodici prove, ottenne l’immortalità.
Al termine delle sue famose 12 fatiche, l’Eroe si riposa
poggiando il braccio sulla sua clava.
Nella mano destra, visibile solo nella parte posteriore,
tiene stretti pomi d’oro rubati alle Esperidi. Dopo aver fatto parte per lungo
tempo della Collezione Farnese, questa statua è stata spostata nel Museo
Archeologico Nazionale di Napoli, scrigno di molti altri Tesori e meritevole di
più di una visita.
Nel 1546 la Statua venne rinvenuta, per caso, durante alcuni
scavi presso le Terme di Caracalla.
Ai tempi, alcune parti, tra cui i poderosi polpacci, erano
gravemente danneggiati.
Il suo Restauro fu affidato ad alcuni allievi di
Michelangelo. L’attribuzione a Glicone è stata immediata, in quanto lo Scultore
firmò l’opera incidendo il suo nome a chiare lettere sul basamento.
Apollo e Dafne – Gianlorenzo Bernini – Roma, Galleria
Borghese
Uno dei Capolavori assoluti dell’Arte universale, si ispira
a un episodio narrato da Ovidio, nelle sue Metamorfosi.
Apollo, innamorato della ninfa Dafne, cerca di conquistarla
e di possederla. Lei però preferisce venir trasformata in un albero di alloro,
per continuare ad appartenere al mondo silvano a cui è votata, e a nessun uomo.
Il gruppo marmoreo raffigura proprio l’istante della trasformazione, in un
sapiente intreccio di capelli, dita e fogliame, proprio un momento prima che il
dio possa stringere la ninfa tra le sue braccia.
Le foglie e le radici, tuttavia, non furono scolpite dal
Bernini, ma dal suo giovane amico e collega Giuliano Finelli, che lo aiutò
a completare l’opera nei tempi richiesti dal committente. Lo sviluppo di questa
scena nello spazio, rispettato nell'esposizione all'interno della Galleria
Borghese, restituisce tutto l’intento narrativo che lo scultore volle
imprimerle: si deve girare intorno all'Opera per assistere al compiersi di
questo prodigio, reso possibile dal padre di Dafne, Peneo. A questo punto si
può godere di un magnifico movimento a spirale, dato dall'arco dei due giovani
corpi e dal rigonfiamento del manto di Apollo.
Il Dio ha il volto in ansia, i muscoli tutti in tensione nel
tentativo di catturare il suo amore. Tuttavia la scena non ha alcun segnale di
sopraffazione o di violenza: la sua mano sinistra semplicemente cinge il corpo
dell’amata, una creatura delicatissima e sfuggente.
David – Michelangelo – Galleria dell’Accademia
Uno dei simboli dell’Italia all'estero, il David è
una delle Statue in marmo più riprodotte a scopi commerciali un po’ ovunque.
Tanto che spesso viene confusa con la sua riproduzione in Piazza della
Signoria. Invece il “vero” David è collocato in un’area appositamente
realizzata per ospitare il gigante marmoreo, dopo diverse dispute e spostamenti
al riguardo.
Il Buonarroti realizzò una vera e propria impresa titanica,
scolpendo un enorme blocco di marmo già sbozzato in precedenza da altri Artisti,
che avevano fallito poiché presentava innumerevoli fragilità e difetti. Ancora
giovanissimo, Michelangelo non si arrese, anzi colse l’occasione ben cosciente
che la riuscita gli avrebbe portato una gloria senza precedenti.
Basandosi sul mito di David, fu il primo a rappresentarlo
giovane, adolescente, nel pieno della sua prestanza fisica, e non con la testa
del gigante Golia già ai suoi piedi. David è raffigurato nel momento in cui sta
per apprestarsi alla lotta, ancora a riposo su una gamba, ma già teso,
concentratissimo, con un’espressione facciale che racchiude in sé tutti i
valori della forza e dell’intelletto. Nella mano destra, più grande rispetto
alle proporzioni naturali così come la testa, l’eroe stringe il sasso con il
quale ucciderà il gigante.
Michelangelo realizzò un’Opera che sembrava impossibile
e che oggi, compreso il suo basamento, è alta più di 5 metri e rappresenta il
paradigma della bellezza maschile, il perfetto esempio di ciò che è stato il
Rinascimento Italiano.
Cristo Velato – Giuseppe Sanmartino – Napoli, Cappella
Sansevero
Uno dei Capolavori dell’Arte marmorea mondiale è conservato
in una Cappella privata, tuttavia aperta al pubblico.
Il corpo del Cristo morto è rappresentato in dimensioni
reali, a grandezza naturale, il che conferisce, assieme alla assoluta
impalpabilità del velo, una veridicità all'Opera senza precedenti. Addirittura
i contemporanei misero in giro una voce, una sorta di leggenda, secondo la
quale il committente Raimondo di Sangro, appassionato ed esperto di alchimia,
avesse insegnato una formula per la marmorizzazione della stoffa, pertanto che
si trattasse di un vero velo tramutato in pietra. In effetti, l’incredibile
leggerezza impressa nel marmo rivela, anziché celare, tutte le fattezze del
Cristo che giace defunto. Addirittura sulle sue mani, in particolare sul dorso
della destra, sono ben visibili persino le ferite dei chiodi lasciate dalla
crocifissione. Questo perché nel Settecento il tema di un corpo velato,
ricorrente soprattutto nelle figure femminili, costituiva una sorta di furba
autocensura, consentendo di mostrare le forme che normalmente andrebbero
nascoste, con la giustificazione del velo.
Ai piedi del Cristo, l’artista ha scolpito i simboli della
Passione: la corona di spine, i chiodi, le tenaglie. La Statua, poggiata su un
basamento e due cuscini rigidi, che per contrasto restituiscono ulteriore
impalpabilità al velo, ha un effetto drammatico per via di una scelta ben
precisa: il corpo non è composto, come si fa al momento di una sepoltura. Al
contrario, è rilassato, le braccia lungo il corpo, il volto che cade da un
lato, come se esalasse l’ultimo respiro.
Il Leone di San Marco – Venezia, Piazza San Marco e varie
Non è una Statua specifica, anche se il più noto è il
rilievo che si trova in Piazza San Marco: il Leone di San Marco (detto anche Leone
Marciano o Leone Alato) è una presenza costante in tutta la città
lagunare e anche in tutti quei luoghi che sono stati sotto il suo dominio nel
tempo. Addirittura, nell'agro pontino, è un tema ricorrente, in quanto larga
parte della popolazione del luogo proveniva da terre venete.
Il Leone è il simbolo di San Marco stesso, ma indica anche
l’angelo in forma di leone che apparve all'Evangelista, pronunciando le parole “Pax
tibi Marce, evangelista meus. Hic requiescet corpus tuum” (Pace a te, Marco,
mio evangelista. Qui riposerà il tuo corpo). Infatti il leone è rappresentato
con un Libro, quasi sempre aperto, recante proprio le parole dell’Angelo.
A parte il Leone Alato, Venezia è letteralmente disseminata
di leoni in marmo. L’esperienza, passeggiando per la Città, che si ottiene
cercando i Leoni è unica: i felini sono collocati in più punti, per dare lustro
ulteriore all'Architettura urbana. Tuttavia, lo spettatore più attento non
faticherà a trovare una certa narrativa in tutto questo, una palese
celebrazione alla Città e alla sua storia.
L’estasi di Santa Teresa d’Avila – Giovan Lorenzo Bernini –
Roma, Chiesa di Santa Maria della Vittoria
Una delle più celebri e teatrali Opere del Bernini, si rifà
a un episodio privato della vita della santa. Non si tratta propriamente di
un’estasi, bensì di una tansverberazione (o assalto del Serafino): un
oggetto appuntito rappresentante l’Amore del Divino trafigge il fedele
provocandone la forte reazione mistica.
Il gruppo marmoreo sembra protendere in avanti nello spazio,
con il serafino che scosta la veste di Santa Teresa per meglio trafiggerla con
l’amore di Dio. La veste di lei, il suo corpo, il piede sembrano librarsi nello
spazio. Il panneggio della veste è copioso e fluente, molto diverso dalle
rigide e algide vesti con cui i contemporanei raffiguravano le donne, specie in
un soggetto religioso. Al momento, fissato nel marmo, è stata conferita una
immensa drammaticità, esaltata dalla tensione del corpo di Teresa d’Avila, dal
capo rovesciato all'indietro, dall'espressione del volto, con le sensuali
labbra socchiuse nel pieno dell’estasi… L’Opera è stata per lungo tempo
considerata scandalosa e diversi testi di psicanalisi la prendono ad esempio.
L’Angelo può simboleggiare Cupido che trafigge con la sua freccia, e
l’innegabile erotismo dell’opera può essere “superato” solo se si accetta di
trovarsi di fronte a un’estasi mistica.
Il gruppo statuario è stato inserito in un’Edicola di marmi
policromi, che lo chiudono come dentro un proscenio. Il Barocco è noto per
restituire teatralità a ogni cosa. In questo modo, l’evento privato della santa
diviene pubblico. Per accentuare il tutto, una luce gialla è stata posta sul
fondo. I raggi di bronzo dorato che cadono dall'alto rendono l’effetto ancora
più teatrale e mistico insieme. Per completare il tutto, due palchetti, come a
teatro, sono stati collocati ai lati dell’edicola. Al loro interno sono
ospitate le statue raffiguranti i membri della famiglia committente, proprio
come se assistessero alla scena della transverberazione in un dramma.
La pudicizia – Antonio Corradini – Napoli, Cappella
Sansevero
Torniamo a Napoli, all'interno di questa splendida cappella
privata e torniamo a parlare di un’altra statua velata. La Pudicizia (o Verità
velata) fa parte del gruppo di statue allegoriche dedicato alle dieci virtù,
scolpite da diversi Artisti e commissionate da Raimondo di Sangro. Anche e
soprattutto in questo caso, il velo serve in realtà a svelare, a mostrare le
splendide forme del corpo femminile.
Questa Opera rococò è l’ultima delle donne velate del Corradini,
che per tutto il corso della sua carriera si dedicò a rendere l’impalpabilità e
insieme il peso del velo che cade sui corpi, aderendovi e, di fatto,
svelandoli, ma senza farli risultare lussuriosi. Del resto, il volto della
Pudicizia, con lo sguardo volto verso un altrove indefinito, è lontanissimo
dalla sensualità del suo corpo.
Il movimento impresso dal chiasmo della posizione della
donna, insieme a questa delicatissima espressione facciale, la rendono quasi
una figura divina, anziché terrena. Si suppone che la lussuria fosse l’ultimo
dei sentimenti che si volesse intenzionalmente generare in quanto la statua,
allegoria anche della Sapienza, fu dedicata a Cecilia Gaetani dell’Aquila
d’Aragona, madre del committente.
Il ratto delle sabine – Giambologna – Firenze, Loggia dei
Lanzi
Un giovane romano rapisce un’avvenente ragazza. Ai loro
piedi, un Uomo più anziano è incapace di fermare questo crimine. Si può supporre
che il vecchio sia il Padre della ragazza. Questo è quanto rappresentato dal
gruppo marmoreo del Ratto delle Sabine (da molti chiamato anche Le
tre età dell’Uomo), che semplifica in un’unica scena il rapimento di massa da
parte dei romani. Giambologna ottenne la sua fama piuttosto velocemente,
distinguendosi per la capacità di scolpire figure femminili in pose insolite e
molto sensuali. In particolare, il gruppo scultoreo del Ratto delle Sabine
vibra per la potenza narrativa impressa nelle figure, attraverso un movimento a
spirale che si sviluppa in altezza e nello spazio. Per poter meglio ammirare
ciò che accade, lo spettatore deve muoversi intorno alla Scultura, ai suoi
vuoti e alle sue masse, sapientemente ottenuti da un’unico blocco di marmo.
I volti della giovane e dell’anziano, così come le loro mani
sinistre, sono speculari. Il terrore dipinto nei volti, la rassegnazione per
non poter far nulla per evitare ciò che sta accadendo. La mano del vecchio
sembra voler agire, ma poi serve solo a celare l’orrore agli occhi; quella
della ragazza cerca di invocare la libertà dall'alto.
Dopo il David di Michelangelo, le sculture a Firenze
tendevano ad essere imponenti. Per questo, il gruppo statuario è alto più di
quattro metri.
La pietà – Michelangelo Buonarroti – Città del Vaticano,
Basilica di San Pietro
L’epitome della bellezza, della perfezione, della dolcezza. Michelangelo impresse
nel marmo dei sentimenti puri, che nessun altro è ancora riuscito ad
eguagliare. In quello che viene universalmente considerato il suo Capolavoro,
ha scolpito un episodio non narrato nei Vangeli: il corpo del Cristo morto che
viene deposto dalla croce e per un attimo sua Madre può accoglierlo tra le sue
braccia. Immortalato nel marmo bianco c’è un momento di estrema dolcezza e amore:
la disperazione di una madre che ha perso suo figlio e la fiducia della Serva
di Dio nella volontà che sta per compiersi. Ciò è reso alla perfezione dal
semplice gesto della mano destra di Maria. Il suo volto è sereno e giovane,
persino più giovane di quello del figlio.
La veste dalla Madonna, con un importante drappeggio,
conferisce tutto il sostegno necessario al corpo del Cristo.
La Pietà è l’unica Opera che Michelangelo ha voluto
firmare: una fascia traversa il corpo di Maria e su di esso è scolpito, in
latino, “lo fece il fiorentino Michelangelo Buonarroti”.
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