- Quartetto e coro: Introitus, Kyrie: Requiem Aeternam: Poco lento
- Soprano solo e coro: Graduale: Requiem Aeternam: Andante
- Coro: Sequentia: Dies irae: Allegro impetuoso
- Quartetto e coro: Sequentia: Tuba mirum: Moderato
- Quartetto e coro: Sequentia: Quid sum miser: Lento
- Quartetto: Sequentia: Recordare: Andante
- Coro: Sequentia: Confutatis maledictis: Moderato maestoso
- Quartetto e coro: Sequentia: Lacrimosa: Poco meno mosso
- Quartetto e coro: Offertorium: Domine Jesu Christe: Andante con moto
- Quartetto e coro: Offertorium: Hostias et preces: Domine Jesu Christe, Rex: Andante
- Quartetto e coro: Sanctus: Sanctus benedictus: Andante maestoso
- Quartetto e coro: Sequentia: Pie Jesu: Poco adagio
- Quartetto e coro: Agnus Dei: Agnus Dei: Lento
Organico: voci soliste (soprano,
contralto, tenore, basso) coro misto, Ottavino, 2 flauti, 2 oboi,
corno inglese, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, contro
fagotto, 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, tam tam,
organo, archi
Composizione: Praga, 1 Gennaio - 31 Ottobre 1890
Prima esecuzione: Birmingham, Prince of Wales Theatre, 9 Ottobre 1891
Dedica: "Ho scritto questo Requiem per il Birmingham Festival in Inghilterra e lo ho diretto io stesso il 9 Ottobre 1891"
Composizione: Praga, 1 Gennaio - 31 Ottobre 1890
Prima esecuzione: Birmingham, Prince of Wales Theatre, 9 Ottobre 1891
Dedica: "Ho scritto questo Requiem per il Birmingham Festival in Inghilterra e lo ho diretto io stesso il 9 Ottobre 1891"
L'origine del Requiem, ultima
delle grandi composizioni sacre di Dvorak, risale alla richiesta di
un'opera corale da destinare al Festival musicale di Birmingham:
richiesta, più che vera e propria commissione, alla quale il
compositore accondiscese volentieri in segno di gratitudine per le
accoglienze calorose che gli erano state tributate in Inghilterra
durante le sue numerose apparizioni come autore e direttore
d'orchestra. I rapporti con questo Paese, e con la sua vita musicale,
erano divenuti sempre più stretti dopo l'esecuzione in prima
assoluta dello Stabat Mater, avvenuta al Royal Albert Hall di
Londra il 10 Maggio 1883; ad esso erano seguite, oltre alla
commissione di una Sinfonia (la Settima in re minore Op. 70),
assidue presenze nei festival corali inglesi, prima a Birmingham con
la ballata La sposa dello spettro (1885), poi a Leeds con
il grande oratorio Santa Ludmilla (1886). Proprio da
Birmingham Dvorak era stato interpellato per un altro Oratorio da
inserire nel Festival del 1888, ma il progetto era stato rimandato a
un'occasione successiva (forse anche per scarso interesse al soggetto
proposto, Il Sogno di Geronzio, poi musicato da Elgar).
Pur sentendosi intimamente legato alla
tradizione della propria terra, la Boemia, e a quella della cultura
strumentale austro-tedesca, nella quale elettivamente aveva messo
radici, Dvorak apprezzava la civiltà inglese nella fiorenle attività
dei suoi cori e dei suoi festival corali, animati da associazioni di
dilettanti appassionati e tutt'altro che sprovveduti sotto l'aspetto
tecnico-educativo. È storia nota che questo aureo filone, inaugurato
da Haendel e impreziosito nell'Ottocento dagli Oratori di
Mendelssohn, non si è mai interrotto; ma proprio in quell'epoca,
nell'Inghilterra vittoriana, esso tornava alla luce con particolare
fervore di iniziative: tali comunque da non essere interamente
soddisfatte dalla vena creativa dei compositori indigeni. Di qui
l'attenzione ri¬volta nuovamente a quei compositori che potessero
contemperare tradizioni diverse. E fra questi Dvorak si era rivelato
uno dei più adatti a unire cordialità di espressione, fresca
ispirazione popolare e sapiente dominio della forma sinfonico-corale
in un ambito che tenesse anche conto dei requisiti fondamentali
dell'ambiente a cui si rivolgeva.
Ciò detto, va subito aggiunto che la
scelta del Requiem fu interamente sua. La proposta
ufficiale, datata 15 Gennaio 1890, subito accolta con entusiasmo
dagli organizzatori inglesi, avvenne a decisione già presa: a quel
tempo infatti egli era già intento al lavoro, dopo aver appena
completato l'Ottava Sinfonia in sol maggiore Op. 88. Gli schizzi dei
primi sette numeri (fino al Confutatis maledictis) furono stesi
tra il 1° Gennaio e il 17 Febbraio di quell'anno; il resto seguì
nella residenza estiva di Vysoka in Boemia tra maggio e luglio, al
rientro da un giro di concerti in Europa. Sempre in estate fu
approntata la partitura, ultimata a Praga il 31 Ottobre 1890:
l'editore Novello di Londra si incaricò subito della stampa.
L'attesa per la prima esecuzione, fissata per il festival del 1891,
fu resa più solenne da importanti riconoscimenti, quali la
laurea honoris causa conferita a Dvorak dall'Università di
Cambridge e l'elezione a membro onorario della London Philharmonic
Society. C'erano dunque tutte le premesse per un grande avvenimento
che ripetesse il clamore popolare dello Stabat Mater. E fu ciò che
puntualmente accadde quando il 9 Ottobre 1891 Dvorak stesso diresse
al Birmingham Musical Festival il suo Requiem nuovo di
zecca: riportando uno dei successi più trionfali della sua vita, che
si ripeté nelle numerose riprese in Inghilterra e poi a Praga nel
1892, nonché in America, dove Dvorak di lì a poco si sarebbe
trasferito.
La felice coincidenza di questi fattori
è al tempo stesso il pregio e il difetto dell'opera. Giacché se è
indubitabile che la scelta di mettere in musica il testo latino della
messa dei morti provenisse da una decisione personale (sui cui motivi
peraltro poco è dato sapere), è altrettanto ovvio che la
destinazione ufficiale non poteva non condizionare il carattere
complessivo del lavoro. Un'abitudine, forse ingenua ma consolidata
dai fatti, ci spinge a considerare la composizione di un Requiem o
come un'attestazione di fede in un contesto liturgico o come una
confessione artistica di fronte al tema della morte. Ora,
il Requiem di Dvorak non è né l'una né l'altra cosa; per
quanto l'assenza di un intento commemorativo e le stesse ampie
proporzioni facciano presupporre che fin dall'inizio esso fosse stato
concepito per le sale da concerto. Ciò rende difficile la sua
collocazione accanto ai precedenti più insigni, verso cui pure
guarda: da Mozart a Berlioz, da Verdi a Brahms. Per ognuno di questi
autori il Requiem è un apice che riflette il campo non
solo della musica ma anche delle convinzioni religiose, morali,
estetiche, e perfino quello della vita; per Dvorak è invece una
tappa piana, una semplice opera d'arte intrisa di valori musicali,
non sfiorata dalla tragedia della morte e refrattaria a confrontarsi
con il suo mistero. In altri termini, non è l'interpretazione né di
un testo né di una liturgia, ma piuttosto la sua celebrazione, la
sua illustrazione. Ciò non ha niente a che fare con la religiosità
di Dvorak, che fu certamente profonda e sincera, fideisticamente
ottimistica, ma dipende semmai da un atteggiamento di fronte alla
tradizione vista in un duplice senso: da un lato la realtà concreta
delle società corali inglesi e della loro salda eredità, dall'altro
il modello di un classicismo altamente formalizzato sulla linea che
va da Haydn a Mendelssohn e vitalizzato dal seme del nazionalismo
slavo. Questo atteggiamento di fondo si traduce in una netta
preponderanza dell'elemento corale e in un trattamento del testo che
non si distacca dalla convenzione e dalla immediatezza, sia nella
articolazione formale che nella definizione delle singole parti.
Più caratteristico risulta invece il
comportamento di Dvorak nei confronti del linguaggio musicale di per
sé considerato. Ci si aspetterebbe di sentir prevalere l'influenza
di Brahms, che fu uno dei punti di riferimento più stabili nella sua
evoluzione, e invece ci si imbatte soprattutto in ascendenze
schubertiane là dove la melodia tende ad aprirsi nel canto, in echi
oratoriali lisztiani, addirittura in pregnanti formule wagneriane: la
cui cifra, quasi esibita nel clima parsifaliano dell'iniziale Requiem
aeternam, si definisce nel motto che sta alla base dell'intera
composizione, quasi Leitmotiv sinfonicamente trattato per dare unità
allo sviluppo e alle espansioni dei singoli brani. Non manca, nelle
parti più scopertamente drammatiche del Dies irae, un certo
sottofondo di stampo teatrale, sia nel clangore degli ottoni e
perfino delle campane, sia nella linea del canto dei solisti, tenore
e basso in special misura; controbilanciata, quest'ultima, dal
lirismo più contenuto delle voci femminili, sottilmente intimistico
nei passi di meditativa introversione. Anche se non emerge in maniera
netta, l'humus del canto popolare impregna più di una sezione
del Requiem: anche in questo caso l'integrazione fra tradizione
colta e tradizione popolare è suggerita dall'affinità di
procedimenti modali e cadenzali, di sequenze melodiche e ritmiche
(come per esempio il sillabato, l'ostinato, il corale, il tono
salmodico) all'interno del genere sacro. Si tratta però di richiami
e allusioni dall'impiego assai discreto, raramente estesi al tessuto
polifonico, quasi mai al colore orchestrale. L'unica citazione
esplicita è chiaramente emblema di questa volontà di integrazione e
riguarda l'utilizzazione di un antico canto ecclesiastico della
tradizione boema - un inno di lode del tardo Medioevo, ancora diffuso
nel tardo Ottocento - come tema della grande fuga Quam olim
Abrahae promisisti (n. 10) che conclude l'Offertorio:
significativamente questa è anche l'unica volta in cui Dvorak
dispiega l'intero armamentario contrappuntistico della fuga severa
nel suo Requiem.
Dal punto di vista formale la divisione
in due parti della partitura non comporta una vera e propria cesura
(neppure nell'esecuzione) ma sottolinea il passaggio dalla sfera del
dolore e della paura a quella della consolazione e della speranza. La
prima parte comprende tre sezioni - Requiem aeternam, Graduale,
Dies Irae - per un totale di otto numeri, stante la consueta
partizione del testo della Sequentia in più episodi. La
seconda parte è invece in quattro sezioni e cinque numeri:
Offertorium e Hostias (entrambi conclusi dalla fuga Quam
olim Abrahae), Sanctus, Pie Jesu, Agnus Dei. Dodici numeri su
tredici impegnano il coro, che è dunque l'assoluto protagonista
dell'opera; e si è già accennato al fatto che il suo trattamento è
in generale più omofonico che polifonico, assai parco di intrecci
contrappuntistici e di figure imitative. Il quartetto dei solisti è
usato sempre in combinazione col Coro; salvo che nel numero 6, il
momento delicato del Recordare, Jesu pie, nel quale l'appello
alla pietà divina e l'invocazione del perdono ben si confanno alle
voci sole, con gli accenti della preghiera individuale. Questa
compattezza e pienezza dell'organico, assecondata da un'orchestra che
a sua volta risuona compatta e piena, è la principale caratteristica
del Requiem di Dvorak: difficile immaginare che non fosse
in così larga misura suggerita proprio dalla destinazione ufficiale,
con l'intento di celebrare un'illustre e composita tradizione.
Il primo blocco è dominato dalla
grandiosa rappresentazione del Giudizio Universale, introdotta dalla
invocazione alla "pace eterna" e dal Kyrie, ridotto a
una breve sezione sillabata su vaghe cadenze ecclesiastiche. Quasi ad
accrescere il terrore del "giorno dell'ira" e dell'attesa,
il Graduale riprende le stesse parole dell'Introduzione affidandole
al canto del soprano solo ("con afflizione", indica la
didascalia) in dialogo col coro diviso (prima sole donne, poi
uomini). Accordi parsifaliani risuonano in orchestra a dare maggiore
solennità al canto. Il clima luttuoso, quasi contristato
dell'esordio è ben evidenziato dalla tonalità d'impianto, si
bemolle minore, punto di riferimento armonico che sta per il dolore e
la tristezza: ora richiamato ora contrastato da tonalità maggiori e
luminose quando il testo inclina ad accenti di speranza. La volontà
di dare alla composizione un'unità non ciclica (che anzi ogni numero
è chiuso in sé, come avveniva nelle Cantate sacre) bensì
intrinsecamente musicale è sintetizzata dal motivo che si presenta
subito all'inizio in orchestra (archi con sordina) : un motivo di
quattro note (fa-sol bemoile-mi-fa) che ha il carattere di un motto e
che si anniderà, variamente trasformato, quasi in ogni piega della
partitura. Questa successione cromatica ruotante attorno alla nota fa
(dominante della tonalità d'impianto) simboleggia nello stile
formulario della retorica musicale la figura della morte e del
lamento (ancor più marcata qui dal ricorso alla sincope), ma è
anche una trasformazione caratteristica del motivo B-A-C-H, per
inversione. Con l'uso che l'autore fa di questa figura sembra ch'egli
voglia saldare la tecnica wagneriana del Leitmotiv all'eloquenza
di antiche memorie musicali di alto lignaggio.
Si è già detto che il Dies
irae non è una sequenza di episodi fra loro collegati ma una
serie di quadri o stazioni che illustrano il testo alternando slanci
drammatici e ripiegamenti lirici. L'orchestra commenta e raccorda
questi brani di ognuno contribuendo a definire l'atmosfera, ma senza
ribaltare le proporzioni fissate dalle voci. Raramente l'orchestra
viene in primo piano con squarci sinfonici, raramente si creano
contrapposizioni tra le voci isolate e la massa: entrambe partecipano
di una stessa identità, appartengono alla stessa matrice.
L'eccezione del Recordare, centro della prima parte, è
suggerita dal contesto (espressione di una pietà intimamente umana)
ma forse anche dall'esempio di Mozart, che analogamente affidò
questo passo al Quartetto dei solisti. Con l'Offertorio, che apre la
seconda parte, inizia lo sviluppo dei temi fin qui posti in una luce
sempre più sfolgorante, come se ora il pensiero della morte aprisse
nuove consapevolezze e da ultimo certezze. Il Sanctus può
così diventare un'oasi di idillica serenità; il Pie Jesu, con
la cantilena dei legni, una visione quasi pastorale di incantevoli
promesse; solo con l'Agnus Dei il ricordo dell'incombere della
morte torna a farsi minaccioso per l'uomo, con cupa disperazione: ma
proprio da questa ultima meditazione Dvorak trae l'ispirazione per
scrivere la pagina più originale e personale di tutto il Requiem,
con commossa adesione a un mistero che finalmente si fa anche
sentimento dei valori dell'esistenza
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