11 settembre 2024

MUSICA – L. JANACEK – MESSA GLAGOLITICA

Glagolská mše (Messa glagolitica), III/9
per soli, coro, organo e orchestra

#Music #History #Janacek #SacredMusic #Messa #MessaGlagolitica #Organ #orchestra

Musica: Leós Janàček (1854 - 1928)
  1. Úvod (Preludio)
  2. Gospodi pomiluj (Kyrie)
  3. Slava (Gloria)
  4. Věruju (Credo) - Raspět že zany (Cruzifixus) - I voskrse (Et resurrexit) - Amin (Amen)
  5. Svet (Sanctus) - Blagosloven (Benedictus) - Osanna vo výšnich (Hosanna)
  6. Agneče božij (Agnus dei)
  7. Varhany solo (organo solo)
  8. Intrada (Uscita)
Organico: soprano, contralto, tenore, basso, coro misto, 4 flauti (anche ottavini), 2 oboi, corno inglese, 3 clarinetti (3 anche clarinetto basso), 3 fagotti (3 anche controfagotto), 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, triangolo,tam-tam, piatti, campana, 2 arpe, celesta, organo, archi
Composizione: Luhacovice, 2 agosto - 15 ottobre 1926
Prima esecuzione: Brno, Beseda, 5 dicembre 1927
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1928 (canto e pianoforte) e 1929 (partitura)
Dedica: Dr. Leopold Prečan, arcivescovo di Olmütz

Forse il primo, comunque fra i primissimi in Italia, già negli anni Trenta Fedele d'Amico diede l'allarme a proposito di Janàček: «Attenzione, siamo in presenza di un grande, una specie di Musorgskij moravo, con in più le esperienze musicali recenti, da Strauss all'espressionismo, fino ai confini della crisi tonale». E, di rincalzo, Gianandrea Gavazzeni, in uno scritto del 1935, ripubblicato in Musicisti d'Europa (1954), annotava, tra l'altro: «Tra i moderni, Janàček è nel folto gruppo dei protagonisti. Senza istituire raffronto o graduazione di valori egli è in quel mondo, in quel quadro di vita musicale che va da Ravel a Stravinsky, da Falla a Szymanowski. Anche gli altri nomi di certa musica europea contemporanea, venuti dopo di lui, non gli sono lontani, quanto a immediatezza di attività e di ruoli: siano essi Honegger o Bartók. Eppure nonostante negli ambienti artistici gli venga riconosciuta importanza, Janàček, la sua musica, le sue creature drammatiche, stanno un poco al di fuori dalle strade maestre, da quadrivi ove fermenta la vita musicale d'oggi». Ed ancora nel 1957, Massimo Mila principiava la recensione della première d'un'opera di questo compositore al Maggio Musicale Fiorentino con le seguenti parole: «Se Janàček fosse stato francese, oggi sarebbe importante e famoso quanto Ravel».
Ancor prima di individuare la peculiare cifra stilistica della produzione di Janàček, e della Messa glagolitica in particolare, va precisato che l'originalità di questo musicista è da cogliersi già nel dato biografico. Per gran parte della sua esistenza (1854-1928) Janàček fu un maestro della provincia morava votato all'insegnamento della disciplina musicale, che nel tempo libero s'applicava allo studio del folclore, specialmente del linguaggio e del canto popolare negli andamenti ritmici e melodici, e saltuariamente alla composizione. Soltanto a cinquantanni, nel 1904, dopo dieci anni di lavoro alla stesura dell'opera La sua figliastra (nota in Occidente come Jenufa), il compositore sembrò poter uscire dall'anonimato, ma il tanto atteso allestimento a Praga, dopo le rappresentazioni a Brno, dovette attendere il 1916. Al successo praghese fu presente Max Brod che di li a poco avrebbe scritto la prima biografia di Janàček e contribuito in prima fila all'affermazione internazionale del compositore moravo, traducendo Jenufa in tedesco. Saranno la pubblicazione di questo spartito per i caratteri della Universal nel 1917, la première di Jenufa alla Hofoper di Vienna nel febbraio 1918, protagonista il soprano Maria Jeritza, e, soprattutto, la liberazione della terra patria dal giogo asburgico con la sconfìtta degli imperi centrali, a segnare il punto di svolta dell'esistenza, non meno che dell'operosità creativa di Janàček.
Alla base dell'inconfondibile personalità di questo musicista vi furono i lunghi studi sulla curvatura melodica del canto e del linguaggio parlato, «l'elaborazione di un sistema armonico eterodosso rispetto alla sintassi tonale, l'adesione alle correnti democratiche della cultura e della politica boeme, il crescente distacco delle posizioni del nazionalismo romantico o tardoromantico di Smetana e Dvoràk» (Pestalozza). Al fondo della sua produzione, «c'è innanzi tutto un temperamento morale: Janàček era uomo profondamente religioso, ma non in senso mistico; il sentimento religioso era per lui essenzialmente il fondamento morale di una fermissima adesione al mondo di quaggiù» (d'Amico). Al punto che tutta la sua musica, «dietro una parvenza di romanticismo modernamente aggiornato, svela i peli arruffati e il prognatismo selvaggio della musica primitiva, il volto spaventoso del subconscio musicale. Ascoltare il canto di Janàček rappresenta la trasposizione in musica dell'angoscia in cui cade K. nel Castello di Kafka quando si accorge della mano palmata di una graziosa ragazza. Anche in Janàček l'efficacia espressiva della commistione nasce dall'innesto di un particolare atavistico, la melodia parlata, su un tessuto attraente. Si stratificano in lui la tradizione e l'innovazione: esse interagiscono nella sua opera in modo sottile e spesso sconcertante, simili a un linguaggio che si critica dall'interno con i suoi stessi presupposti iniziali. Un linguaggio che assomiglia a un tronco invecchiato che rifiorisce di quegli stessi germogli che ne rappresentano l'immagine originaria» (Pulcini).
Decisiva a definire il retaggio artistico di Janàček fu però la produzione dell'ultimo decennio, in cui videro la luce, prima della Messa glagolitica (1926-27), tre opere - Kat'a Kabanova (1919-21), Le avventure della volpe astuta (1921-23), L'affare Makropoulos (1923-25) - assieme alla  Sinfonietta (1926) e a vari lavori da camera; e che, dopo la Messa glagolitica, venne completata dall'ultima opera Da una casa di morti (1928) e dal Secondo Quartetto per archi (1928).
Il primo germoglio di quella che diverrà la Messa glagolitica vide la luce parecchi anni addietro all'effettiva stesura di questa partitura ed è da identificarsi nell'abbozzo, vergato nel 1907-08 di una Messa latina in mi bemolle per coro misto e organo, che l'autore propose all'attenzione dei suoi discepoli alla Scuola organistica di Brno nella primavera del 1908 e che comprendeva soltanto un Kyrie, un Agnus Dei e parte d'un Credo. Quel frammento venne però accantonato, per riaffiorare nel 1926 al momento della prima stesura della Messa glagolitica. Agli allievi, Janàček raccomandò, in quella lontana circostanza: «Scrivere in latino ma pensare in lingua ceca». Di tale presupposto se ne rammentò, ancor prima del compositore, un suo studente che abbracciò poi la professione religiosa, padre Josef Martinek, il quale riferì d'aver appreso dallo stesso Janàček che nell'estate 1921 già stava adoprandosi per acquisire il testo della messa in "glagolitico" durante l'incontro con l'arcivescovo Leopold Precan a Hukvaldy. Sarebbero però trascorsi cinque anni, durante i quali furono portati a termine Le avventure della volpe astuta, L'affare Makropoulos, ma anche due lavori da camera come Gioventù (1924) e il Concertino (1925), per non parlare della Sinfonietta, ultimata il 15 maggio 1926, prima che Janàček decidesse di dedicarsi seriamente a scrivere la Messa glagolitica, traendo da un cassetto il testo fornitogli dal Martinek.
Qual è l'autentico significato del termine "glagolitico"? Janàček aveva avuto un ricordo lontano nel proprio passato, allorché, ancora studente a Brno, nel 1869 aveva assistito alle celebrazioni del millenario della morte di Cirillo, uno dei due santi assieme a Metodio che avevano evangelizzato la Moravia. Da quel proposito sarebbe disceso, al momento di comporre una Messa, l'intento di definirla secondo una precipua prospettiva, quella dell'impiego della versione in un'antica lingua slava di parti della Bibbia e dei Vangeli, adottando la scrittura "glagolitica": una scrittura, derivata probabilmente dalla grafia greca del settimo e dell'ottavo secolo o da un alfabeto ancor precedente paleoslavo, il cui nome si lega alla parola "glagola" che è la traduzione del "dicit" latino. In certe contrade della Croazia, come è confermato da tracce tuttora esistenti sul litorale adriatico, v'è in proposito una tradizione che la Chiesa non ritenne scismatica, a differenza di quella cirillica, che trovò diffusione nei paesi slavi, traducendosi poi in scrittura.
Mentre iniziava la composizione di questa Messa, Janàček ebbe a dichiarare: «Mostrerò alla gente come bisogna parlare al Signore Iddio!». L'allusione è esplicita: etimologicamente, alfabeto "glagolitico" significa alfabeto "del Verbo", dal momento che nel testo del Veruju, cioè del "Credo", si ascoltano le seguenti parole: «I ze glagolal jest Proroky» («e che si è espresso tramite i profeti»). Una messa religiosa? Niente affatto. Perché Janàček si premurò di render esplicita questa precisazione: «Ho voluto ritrarre la fiducia nella saldezza della nazione su una base non religiosa ma morale, che chiama Dio come testimone». Non va dimenticata, in proposito, la data d'origine di quest'opera, il 1926 in previsione delle celebrazioni, nel 1928, del decennale della costituzione della Repubblica Cecoslovacca. Ha ricordato, a questo riguardo, il Pulcini che, quando un critico di Brno, recensendo la Messa glagolitica, definì l'autore «un vegliardo uomo di fede», Janàček gli rispose inviando una cartolina illustrata che raffigurava un leone infuriato, con le parole: «né vegliardo, né credente!».
La composizione vera e propria della Messa glagolitica si realizzò in un arco di tempo brevissimo: dopo alcuni abbozzi, a fine luglio del 1926 il musicista si recò alla stazione termale di Luhacovice, ove abitualmente trascorreva le vacanze, e tra il 2 e il 17 agosto vergò una prima stesura dell'intero lavoro recuperando la musica delle sezioni staccate scritte nel 1907/08 e articolando l'opera in sette sezioni con il seguente ordine: Uvod (Introduzione), Gospodi (Kyrie), Slava (Gloria), Intrada, Vèruju (Credo), Svet (Sanctus), Agnece (Agnus). Tornato a Brno, Janàček iniziò la revisione della partitura, che intitolò Misa slavnija (Missa solemnis), preoccupandosi di uniformarne il testo a quello tratto dalla traslitterazione d'un antico messale, rinvenuto a Kromériz, dal paleoslavo in latino. Modificò la successione degli episodi, trasferendo l'Intrada alla conclusione dell'opera: al termine della revisione, il titolo definitivo diventò M'sa glagolskaja (Missa solemnis): era il 15 ottobre. Una decina di giorni dopo, l'autore vi aggiunse il Varhany solo, cioè l'episodio affidato all'organo solo, ultimando questa sezione all'inizio di dicembre. Poi l'attenzione di Janàček si rivolse all'avvio della composizione dell'opera Da una casa di morti, e della Messa glagolitica, non si sentì più parlare, nell'Epistolario o nei taccuini del musicista, sino alla primavera successiva, allorché fu annunciata, per l'inverno 1927, la prima esecuzione assoluta, che ebbe luogo il 5 dicembre 1927 nella sala da concerto del Sokol Stadium di Brno, con la direzione di Jaroslav Kvapil: assieme al Coro e all'Orchestra del Teatro di Brno, i solisti di canto furono Alexandra Cvanovà (soprano), Marie Hlouskovà (contralto), Stanislav Tauber (tenore) e Ladislav Némecek (baritono), con Bohumil Holub all'organo. La première al di fuori della Cecoslovacchia si svolse il 28 febbraio 1929 a Berlino, sul podio Alexander von Zemlinsky. La prima esecuzione in Italia alla Sagra Musicale Umbra (Chiesa di San Pietro a Perugia) nel 1951 sotto la direzione di Fritz Stiedry; l'approdo a Santa Cecilia, novità per l'istituzione, il 16 aprile 1967, sul podio Lovro von Matacic.
Ad illustrazione dei significati, più o meno simbolici o allusivi, della Messa glagolitica vi sono due espliciti scritti di Janàček, il primo pubblicato il 27 novembre 1927 sul "Lidové noviny", l'altro contenuto in una lettera inviata due giorni prima a Kamila Stòsslova, una giovane signora di Pisele di cui il musicista da alcuni anni si era invaghito ed alla quale avrebbe indirizzato, nell'estrema stagione dell'esistenza, oltre 700 missive.
Nell'articolo sul giornale Janàček scrisse, tra l'altro: «Perché questa musica? A Luhacovice piove a dirotto. Dalla finestra si guarda un tetro monte. Le nuvole si ammassano, la tempesta le lacera e le spazza via. Il crepuscolo diveniva sempre più denso. Già calava la notte scura, tagliata dai lampi. Accendo la lampadina tremolante appesa al soffitto. E abbozzo nient'altro che il motivo sommesso delle parole disperate: Gospodi Pomiluj (Kyrie eleison). Nient'altro che il richiamo gioioso: Slava, slava (Gloria). Nient'altro che logorante dolore nelle parole: Raspet ze zany, mucen i pògreben byst (Per noi crocifisso, martirizzato e sepolto). Nient'altro che rigore della fede e del giuramento nel motivo: Véruju (Credo). E la fine di tutti gli entusiasmi e i moti dell'animo nei motivi: Amen, amen! Esaltazione della santità in Svet, svet, (Sanctus), Blagoslovl'en (Benedictus), Agnece Bozij (Agnus Dei). Senza la tetraggine delle celle ecclesiastico-medievali nei temi, senza l'eco di imitazioni, senza risonanti reticolati di fughe bachiane, senza il pathos di Beethoven, senza il trastullarsi di Haydn [...] Oggi, cara luna, sembri, nell'alto dei cieli, come su fogli pieni di note, domani s'insinuerà il sole curioso. [...] E sempre soffiavano le foreste umide di Luhacovice, come incenso. Fra lontananze nebbiose sorse la mia chiesa, gigantesca come catena montuosa e volta del cielo: al servizio hanno provveduto le campane dei pastori. Ascolto un alto prelato nel tenore solista, un angelo-fanciulla nel soprano, il nostro popolo nel coro. Candele - alberi slanciati nel bosco, accesi dalle stelle. E durante la cerimonia, da qualche parte mi appare la visione principesca di San Venceslao. E percepisco la lingua degli apostoli della fede Cirillo e Metodio».
L'aspetto panteistico della spiritualità dell'autore viene evidenziato da queste parole all'amata Ramila: «In quest'opera mi sforzo di raffigurare la leggenda secondo cui, durante la crocifissione di Cristo, il cielo si aperse. Allora io faccio tuoni e fulmini [...]. Oggi ho scritto alcune righe su come io immagino la mia chiesa. L'ho posta a Luhacovice [...]. Dove altro potrebbe essere se non là ove eravamo tanto felici! Questa chiesa è alta, si protende verso il cielo. Vi bruciano candele, alti abeti che in cima hanno stelline lucenti. E in chiesa vi sono campanelli di un gregge di pecore [...]. Allodole, tordi, anatre, oche fate musica [...]. Fine del sogno: tu dormi ed io di te deliro».
All'ascolto della musica di quest'opera si coglie lo stile dell'estrema creatività di Janàček: ritmica non molto ricca e varia, strumentazione per sezioni (archi, legni, ottoni), invenzione tematica a cellule melodiche brevi desunte dalla lingua parlata, un'articolazione che ricusa gli sviluppi formali ma elabora la ripetizione sempre leggermente variata delle medesime cellule musicali, tendenza al mono-tematismo, con l'intera visione d'insieme dei frammenti ripetuti che fa pensare a un mosaico bizantino. Nella scrittura orchestrale, come accadrà in Da una casa di morti, sono preferite le sonorità acute e basse, a scapito delle sonorità nel registro centrale, quasi a non voler interferire nelle linee vocali che non sono quasi mai raddoppiate: il canto appare, di conseguenza, incorniciato, in alto e in basso, dalla strumentazione che non lo sovrappone. Nell'orchestrazione assume una spiccata evidenza il contrasto tra l'asciutta trasparenza e la tesa massa sonora, che in alcuni momenti assume il carattere d'una tagliente violenza: «la scultorea essenzialità delle linee fa pensare a profondi "intagli" nel vuoto o alla "costruttività del colore" nei pittori fauve, e al loro disinteresse per il chiaroscuro» (Pulcini).
Se il contrappunto risulta ridotto al minimo, con l'eccezione dell'episodio per organo solo, ove i canoni, nell'inseguirsi rapidissimi, sembrano impazziti, tutta la dimensione vocale della Messa glagolitica si caratterizza per la propensione all'eccesso, il registro acuto fino allo spasimo, nelle invocazioni o negli effetti parlati, i fuggevoli accenti di devozione. Non meno incisiva, nella sua determinazione, la scansione ritmica, per lo più governata da un vigore primitivo e barbarico, irrefrenabile, del tutto innovativo rispetto alla tradizione, all'abituale atmosfera religiosa. Ed il culmine lo si coglie «nella sezione centrale dello Svet (Sanctus), in cui l'orchestra, fra festosi scampanìi, scandisce un orgiastico ritmo rock (che inizia dopo le parole Gospod, Bog Sabaoth) interrotto ad intermittenza dalle esclamazioni del coro. Nel segno di un ritmo solitamente poco consono allo spirito di una messa è anche l'Intrada finale, che costituisce la firma in calce all'opera: una di quelle firme che bucano il foglio da parte a parte» (Pulcini).
Articolata in otto sezioni, di cui tre esclusivamente orchestrali e cinque corrispondenti alle parti tradizionali della messa, la partitura della Messa glagolitica si apre con l'Introduzione di carattere festoso, quasi ad accompagnare l'ingresso del sacerdote in una cerimonia liturgica: il brano è bipartito, con due motivi contrastanti nella parte iniziale, che si alternano a blocchi, sino ad un accelerando delle percussioni, per poi dissolversi all'avvio della seconda parte, pure strumentale (Ùvod): un'energica fanfara di ottoni e timpani nello schema del rondò, dominato dall'irruenta scansione ritmica e dall'incessante trascorrere della musica attraverso varie tonalità, anche lontane, in un clima espressivo di marcata tensione, che richiama alla mente l'inizio della Sinfonietta. Il Gospodi pomiluj (Kyrie) più che un ambiente religioso sembra evocare un dramma umano: al centro della struttura tripartita, in cui c'è un frequente impiego degli intervalli di quarta e di quinta, emblematici della pratica melodica morava nel modo misolidio, c'è il disperato grido del soprano Cristo abbi pietà di noi, rinnovato tre volte, mentre gli interventi del coro e la partecipazione dell'orchestra intensificano l'urgenza drammatica, nei crescendo in fortissimo e nella continua instabilità tonale. La conclusione, dopo un'esile frase dell'oboe e delle viole, sfuma nel pianissimo.
Disposta nel succedersi di sei episodi è, in uno schema prossimo a quello del rondò, la sezione dello Slava (Gloria): ma la struttura, che formalmente sembra apparentarsi a quella adottata da Bach nella Messa in si minore e da Beethoven nella Missa solemnis, viene sottoposta da Janàček ad un ininterrotto processo di frammentazione nell'impiego di inusuali impasti strumentali. All'intervento del soprano subentra quello del tenore entro un ambiente espressivo che evoca, con il suo impeto popolaresco, certe scene di stampo folclorico della produzione teatrale di Janàček: ed anche qui le armonie aspre e dissonanti, i timbri acuminati, i ritmi taglienti caratterizzano in maniera inequivocabile l'incedere della musica sino agli esaltati Amen conclusivi, nell'accesa, incandescente partecipazione del coro, dell'organo e dell'orchestra in tutte le sue famiglie strumentali.
Vèruju (Credo) è la parte di maggior ampiezza della Messa glagolitica, e può apparire come una pagina autonoma, dominata dalla riproposta ciclica della parola "Véruju" (Credo): al cuore vi è inserito un interludio puramente strumentale, diviso a sua volta in tre episodi che intenderebbero raffigurare, secondo l'analisi di Ludvik Kundera, tre momenti della vita di Cristo: la preghiera nel deserto con l'Andante cantabile del flauto e del violoncello, l'entrata a Gerusalemme con la gioiosa fanfara degli ottoni, la Passione con il possente solo dell'organo. Torna poi in primo piano la vocalità che ripropone il tema iniziale del coro sino al trionfante Amen rinforzato dal canto spiegato degli ottoni.
Lo Svet (Sanctus) si apre con un'eterea e serena introduzione orchestrale, tocca poi al soprano accennare con dolcezza la triplice enunciazione Svet (Sanctus) che viene ripresa quindi dal tenore e dal basso, mentre i violini nel registro acuto ripetono l'incedere d'una specie di marcia che si fa sempre più ossessiva, trasformandosi, nella progressiva sua accelerazione, in una danza barbarica, un orgiastico ostinato da moto perpetuo. Per contrasto, l'Agnece Bozij (Agnus Dei) instaura un'atmosfera trasparente e limpida, sin dall'intervento del flauto, del corno inglese e degli archi, ma anche qui Janàček va contro corrente e non lesina i cromatismi, gli accenti emotivi accalorati, l'urgenza espressiva, i bruschi accelerando che rendono angosciosa la tinta malinconica della pagina nell'incalzare delle sincopi e dell'ostinato, mentre nella vocalità le parole iniziali, ripetute tre volte dal coro a cappella, vengono sviluppate dai solisti di canto con il coro che ritorna alla conclusione in un'atmosfera di disperata instabilità tonale. Seguono due episodi strumentali: il Solo d'organo, una sorta di passacaglia dinamicamente vigorosa, con un incedere quasi schizofrenico dei motivi introduttivi, che dall'Allegro trascorre ad Un poco più mosso, al Presto, al Prestissimo, collegandosi al materiale tematico e alla tonalità della sezione del Crucifixus del Véruju (Credo); e la finale Intrada che intende raffigurare l'accompagnamento del sacerdote e della congregazione ecclesiastica dopo la conclusione del rito, e che Janàček esplicita, secondo l'opinione di Jaroslav Vogel, come «un ingresso a tempo di marcia nella animata vitalità dell'esistenza, riaffermata dalla rinnovata certezza della consapevolezza dello spirito slavo» (1963), e che con gli insistiti cromatismi, l'alternanza di ottoni e archi, ripropone gli incisi tematici e l'atmosfera espressiva dell'Introduzione, siglando la cornice ciclica di quest'opera indubbiamente tipica della inventiva dell'estrema stagione creativa del compositore moravo, e percorsa da una inesausta carica innovativa di fortissima suggestione.

Nessun commento:

Posta un commento

CINEMA - ‘ GIURATO NUMERO 2 ‘

"GIURATO NUMERO 2"  L'ultimo lavoro di Clint Eastwood si addentra nelle profondità della moralità e della giustizia, ponendo d...