per soli, coro, organo e
orchestra
#Music #History #Janacek #SacredMusic #Messa #MessaGlagolitica #Organ #orchestra
Musica: Leós Janàček (1854 - 1928)
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Musica: Leós Janàček (1854 - 1928)
- Úvod (Preludio)
- Gospodi pomiluj (Kyrie)
- Slava (Gloria)
- Věruju (Credo) - Raspět že zany (Cruzifixus) - I voskrse (Et resurrexit) - Amin (Amen)
- Svet (Sanctus) - Blagosloven (Benedictus) - Osanna vo výšnich (Hosanna)
- Agneče božij (Agnus dei)
- Varhany solo (organo solo)
- Intrada (Uscita)
Organico: soprano, contralto,
tenore, basso, coro misto, 4 flauti (anche ottavini), 2 oboi, corno
inglese, 3 clarinetti (3 anche clarinetto basso), 3 fagotti (3 anche
controfagotto), 4 corni, 4 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani,
grancassa, triangolo,tam-tam, piatti, campana, 2 arpe, celesta,
organo, archi
Composizione: Luhacovice, 2 agosto - 15 ottobre 1926
Prima esecuzione: Brno, Beseda, 5 dicembre 1927
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1928 (canto e pianoforte) e 1929 (partitura)
Dedica: Dr. Leopold Prečan, arcivescovo di Olmütz
Composizione: Luhacovice, 2 agosto - 15 ottobre 1926
Prima esecuzione: Brno, Beseda, 5 dicembre 1927
Edizione: Universal Edition, Vienna, 1928 (canto e pianoforte) e 1929 (partitura)
Dedica: Dr. Leopold Prečan, arcivescovo di Olmütz
Forse il primo, comunque fra i
primissimi in Italia, già negli anni Trenta Fedele d'Amico diede
l'allarme a proposito di Janàček: «Attenzione, siamo in presenza
di un grande, una specie di Musorgskij moravo, con in più le
esperienze musicali recenti, da Strauss all'espressionismo, fino ai
confini della crisi tonale». E, di rincalzo, Gianandrea Gavazzeni,
in uno scritto del 1935, ripubblicato in Musicisti
d'Europa (1954), annotava, tra l'altro: «Tra i moderni, Janàček
è nel folto gruppo dei protagonisti. Senza istituire raffronto o
graduazione di valori egli è in quel mondo, in quel quadro di vita
musicale che va da Ravel a Stravinsky, da Falla a Szymanowski. Anche
gli altri nomi di certa musica europea contemporanea, venuti dopo di
lui, non gli sono lontani, quanto a immediatezza di attività e di
ruoli: siano essi Honegger o Bartók. Eppure nonostante negli
ambienti artistici gli venga riconosciuta importanza, Janàček, la
sua musica, le sue creature drammatiche, stanno un poco al di fuori
dalle strade maestre, da quadrivi ove fermenta la vita musicale
d'oggi». Ed ancora nel 1957, Massimo Mila principiava la recensione
della première d'un'opera di questo compositore al Maggio Musicale
Fiorentino con le seguenti parole: «Se Janàček fosse stato
francese, oggi sarebbe importante e famoso quanto Ravel».
Ancor prima di individuare la peculiare
cifra stilistica della produzione di Janàček, e della Messa
glagolitica in particolare, va precisato che l'originalità di
questo musicista è da cogliersi già nel dato biografico. Per gran
parte della sua esistenza (1854-1928) Janàček fu un maestro della
provincia morava votato all'insegnamento della disciplina musicale,
che nel tempo libero s'applicava allo studio del folclore,
specialmente del linguaggio e del canto popolare negli andamenti
ritmici e melodici, e saltuariamente alla composizione. Soltanto a
cinquantanni, nel 1904, dopo dieci anni di lavoro alla stesura
dell'opera La sua figliastra (nota in Occidente
come Jenufa), il compositore sembrò poter uscire
dall'anonimato, ma il tanto atteso allestimento a Praga, dopo le
rappresentazioni a Brno, dovette attendere il 1916. Al successo
praghese fu presente Max Brod che di li a poco avrebbe scritto la
prima biografia di Janàček e contribuito in prima fila
all'affermazione internazionale del compositore moravo,
traducendo Jenufa in tedesco. Saranno la pubblicazione di
questo spartito per i caratteri della Universal nel 1917, la première
di Jenufa alla Hofoper di Vienna nel febbraio 1918,
protagonista il soprano Maria Jeritza, e, soprattutto, la liberazione
della terra patria dal giogo asburgico con la sconfìtta degli imperi
centrali, a segnare il punto di svolta dell'esistenza, non meno che
dell'operosità creativa di Janàček.
Alla base dell'inconfondibile
personalità di questo musicista vi furono i lunghi studi sulla
curvatura melodica del canto e del linguaggio parlato,
«l'elaborazione di un sistema armonico eterodosso rispetto alla
sintassi tonale, l'adesione alle correnti democratiche della cultura
e della politica boeme, il crescente distacco delle posizioni del
nazionalismo romantico o tardoromantico di Smetana e Dvoràk»
(Pestalozza). Al fondo della sua produzione, «c'è innanzi tutto un
temperamento morale: Janàček era uomo profondamente religioso, ma
non in senso mistico; il sentimento religioso era per lui
essenzialmente il fondamento morale di una fermissima adesione al
mondo di quaggiù» (d'Amico). Al punto che tutta la sua musica,
«dietro una parvenza di romanticismo modernamente aggiornato, svela
i peli arruffati e il prognatismo selvaggio della musica primitiva,
il volto spaventoso del subconscio musicale. Ascoltare il canto
di Janàček rappresenta la trasposizione in musica
dell'angoscia in cui cade K. nel Castello di Kafka quando
si accorge della mano palmata di una graziosa ragazza. Anche
in Janàček l'efficacia espressiva della commistione nasce
dall'innesto di un particolare atavistico, la melodia parlata, su un
tessuto attraente. Si stratificano in lui la tradizione e
l'innovazione: esse interagiscono nella sua opera in modo sottile e
spesso sconcertante, simili a un linguaggio che si critica
dall'interno con i suoi stessi presupposti iniziali. Un linguaggio
che assomiglia a un tronco invecchiato che rifiorisce di quegli
stessi germogli che ne rappresentano l'immagine originaria»
(Pulcini).
Decisiva a definire il retaggio
artistico di Janàček fu però la produzione dell'ultimo decennio,
in cui videro la luce, prima della Messa glagolitica (1926-27),
tre opere - Kat'a Kabanova (1919-21), Le avventure
della volpe astuta (1921-23), L'affare
Makropoulos (1923-25) - assieme alla Sinfonietta (1926) e
a vari lavori da camera; e che, dopo la Messa glagolitica, venne
completata dall'ultima opera Da una casa di morti (1928) e
dal Secondo Quartetto per archi (1928).
Il primo germoglio di quella che
diverrà la Messa glagolitica vide la luce parecchi anni
addietro all'effettiva stesura di questa partitura ed è da
identificarsi nell'abbozzo, vergato nel 1907-08 di una Messa
latina in mi bemolle per coro misto e organo, che l'autore
propose all'attenzione dei suoi discepoli alla Scuola organistica di
Brno nella primavera del 1908 e che comprendeva soltanto un Kyrie, un
Agnus Dei e parte d'un Credo. Quel frammento venne però accantonato,
per riaffiorare nel 1926 al momento della prima stesura della Messa
glagolitica. Agli allievi, Janàček raccomandò, in quella
lontana circostanza: «Scrivere in latino ma pensare in lingua ceca».
Di tale presupposto se ne rammentò, ancor prima del compositore, un
suo studente che abbracciò poi la professione religiosa, padre Josef
Martinek, il quale riferì d'aver appreso dallo stesso Janàček che
nell'estate 1921 già stava adoprandosi per acquisire il testo della
messa in "glagolitico" durante l'incontro con l'arcivescovo
Leopold Precan a Hukvaldy. Sarebbero però trascorsi cinque anni,
durante i quali furono portati a termine Le avventure della
volpe astuta, L'affare Makropoulos, ma anche due lavori da
camera come Gioventù (1924) e il Concertino (1925),
per non parlare della Sinfonietta, ultimata il 15 maggio 1926,
prima che Janàček decidesse di dedicarsi seriamente a scrivere la
Messa glagolitica, traendo da un cassetto il testo fornitogli dal
Martinek.
Qual è l'autentico significato del
termine "glagolitico"? Janàček aveva avuto un ricordo
lontano nel proprio passato, allorché, ancora studente a Brno, nel
1869 aveva assistito alle celebrazioni del millenario della morte di
Cirillo, uno dei due santi assieme a Metodio che avevano
evangelizzato la Moravia. Da quel proposito sarebbe disceso, al
momento di comporre una Messa, l'intento di definirla secondo
una precipua prospettiva, quella dell'impiego della versione in
un'antica lingua slava di parti della Bibbia e dei Vangeli, adottando
la scrittura "glagolitica": una scrittura, derivata
probabilmente dalla grafia greca del settimo e dell'ottavo secolo o
da un alfabeto ancor precedente paleoslavo, il cui nome si lega alla
parola "glagola" che è la traduzione del "dicit"
latino. In certe contrade della Croazia, come è confermato da tracce
tuttora esistenti sul litorale adriatico, v'è in proposito una
tradizione che la Chiesa non ritenne scismatica, a differenza di
quella cirillica, che trovò diffusione nei paesi slavi, traducendosi
poi in scrittura.
Mentre iniziava la composizione di
questa Messa, Janàček ebbe a dichiarare: «Mostrerò alla
gente come bisogna parlare al Signore Iddio!». L'allusione è
esplicita: etimologicamente, alfabeto "glagolitico"
significa alfabeto "del Verbo", dal momento che nel testo
del Veruju, cioè del "Credo", si ascoltano le
seguenti parole: «I ze glagolal jest Proroky» («e che si è
espresso tramite i profeti»). Una messa religiosa? Niente affatto.
Perché Janàček si premurò di render esplicita questa
precisazione: «Ho voluto ritrarre la fiducia nella saldezza della
nazione su una base non religiosa ma morale, che chiama Dio come
testimone». Non va dimenticata, in proposito, la data d'origine di
quest'opera, il 1926 in previsione delle celebrazioni, nel 1928, del
decennale della costituzione della Repubblica Cecoslovacca. Ha
ricordato, a questo riguardo, il Pulcini che, quando un critico di
Brno, recensendo la Messa glagolitica, definì l'autore «un
vegliardo uomo di fede», Janàček gli rispose inviando una
cartolina illustrata che raffigurava un leone infuriato, con le
parole: «né vegliardo, né credente!».
La composizione vera e propria
della Messa glagolitica si realizzò in un arco di tempo
brevissimo: dopo alcuni abbozzi, a fine luglio del 1926 il musicista
si recò alla stazione termale di Luhacovice, ove abitualmente
trascorreva le vacanze, e tra il 2 e il 17 agosto vergò una prima
stesura dell'intero lavoro recuperando la musica delle sezioni
staccate scritte nel 1907/08 e articolando l'opera in sette sezioni
con il seguente ordine: Uvod (Introduzione), Gospodi (Kyrie), Slava
(Gloria), Intrada, Vèruju (Credo), Svet (Sanctus), Agnece (Agnus).
Tornato a Brno, Janàček iniziò la revisione della partitura, che
intitolò Misa slavnija (Missa solemnis), preoccupandosi di
uniformarne il testo a quello tratto dalla traslitterazione d'un
antico messale, rinvenuto a Kromériz, dal paleoslavo in latino.
Modificò la successione degli episodi, trasferendo l'Intrada alla
conclusione dell'opera: al termine della revisione, il titolo
definitivo diventò M'sa glagolskaja (Missa solemnis): era
il 15 ottobre. Una decina di giorni dopo, l'autore vi aggiunse
il Varhany solo, cioè l'episodio affidato all'organo solo,
ultimando questa sezione all'inizio di dicembre. Poi l'attenzione di
Janàček si rivolse all'avvio della composizione dell'opera Da
una casa di morti, e della Messa glagolitica, non si sentì più
parlare, nell'Epistolario o nei taccuini del musicista, sino alla
primavera successiva, allorché fu annunciata, per l'inverno 1927, la
prima esecuzione assoluta, che ebbe luogo il 5 dicembre 1927 nella
sala da concerto del Sokol Stadium di Brno, con la direzione di
Jaroslav Kvapil: assieme al Coro e all'Orchestra del Teatro di Brno,
i solisti di canto furono Alexandra Cvanovà (soprano), Marie
Hlouskovà (contralto), Stanislav Tauber (tenore) e Ladislav Némecek
(baritono), con Bohumil Holub all'organo. La première al di fuori
della Cecoslovacchia si svolse il 28 febbraio 1929 a Berlino, sul
podio Alexander von Zemlinsky. La prima esecuzione in Italia alla
Sagra Musicale Umbra (Chiesa di San Pietro a Perugia) nel 1951 sotto
la direzione di Fritz Stiedry; l'approdo a Santa Cecilia, novità per
l'istituzione, il 16 aprile 1967, sul podio Lovro von Matacic.
Ad illustrazione dei significati, più
o meno simbolici o allusivi, della Messa glagolitica vi
sono due espliciti scritti di Janàček, il primo pubblicato il 27
novembre 1927 sul "Lidové noviny", l'altro contenuto in
una lettera inviata due giorni prima a Kamila Stòsslova, una giovane
signora di Pisele di cui il musicista da alcuni anni si era invaghito
ed alla quale avrebbe indirizzato, nell'estrema stagione
dell'esistenza, oltre 700 missive.
Nell'articolo sul giornale Janàček
scrisse, tra l'altro: «Perché questa musica? A Luhacovice piove a
dirotto. Dalla finestra si guarda un tetro monte. Le nuvole si
ammassano, la tempesta le lacera e le spazza via. Il crepuscolo
diveniva sempre più denso. Già calava la notte scura, tagliata dai
lampi. Accendo la lampadina tremolante appesa al soffitto. E abbozzo
nient'altro che il motivo sommesso delle parole disperate: Gospodi
Pomiluj (Kyrie eleison). Nient'altro che il richiamo
gioioso: Slava, slava (Gloria). Nient'altro che logorante
dolore nelle parole: Raspet ze zany, mucen i pògreben byst (Per
noi crocifisso, martirizzato e sepolto). Nient'altro che rigore della
fede e del giuramento nel motivo: Véruju (Credo). E la
fine di tutti gli entusiasmi e i moti dell'animo nei motivi: Amen,
amen! Esaltazione della santità in Svet, svet,
(Sanctus), Blagoslovl'en (Benedictus), Agnece
Bozij (Agnus Dei). Senza la tetraggine delle celle
ecclesiastico-medievali nei temi, senza l'eco di imitazioni, senza
risonanti reticolati di fughe bachiane, senza il pathos di Beethoven,
senza il trastullarsi di Haydn [...] Oggi, cara luna, sembri,
nell'alto dei cieli, come su fogli pieni di note, domani s'insinuerà
il sole curioso. [...] E sempre soffiavano le foreste umide di
Luhacovice, come incenso. Fra lontananze nebbiose sorse la mia
chiesa, gigantesca come catena montuosa e volta del cielo: al
servizio hanno provveduto le campane dei pastori. Ascolto un alto
prelato nel tenore solista, un angelo-fanciulla nel soprano, il
nostro popolo nel coro. Candele - alberi slanciati nel bosco, accesi
dalle stelle. E durante la cerimonia, da qualche parte mi appare la
visione principesca di San Venceslao. E percepisco la lingua degli
apostoli della fede Cirillo e Metodio».
L'aspetto panteistico della
spiritualità dell'autore viene evidenziato da queste parole
all'amata Ramila: «In quest'opera mi sforzo di raffigurare la
leggenda secondo cui, durante la crocifissione di Cristo, il cielo si
aperse. Allora io faccio tuoni e fulmini [...]. Oggi ho scritto
alcune righe su come io immagino la mia chiesa. L'ho posta a
Luhacovice [...]. Dove altro potrebbe essere se non là ove eravamo
tanto felici! Questa chiesa è alta, si protende verso il cielo. Vi
bruciano candele, alti abeti che in cima hanno stelline lucenti. E in
chiesa vi sono campanelli di un gregge di pecore [...]. Allodole,
tordi, anatre, oche fate musica [...]. Fine del sogno: tu dormi ed io
di te deliro».
All'ascolto della musica di quest'opera
si coglie lo stile dell'estrema creatività di Janàček: ritmica non
molto ricca e varia, strumentazione per sezioni (archi, legni,
ottoni), invenzione tematica a cellule melodiche brevi desunte dalla
lingua parlata, un'articolazione che ricusa gli sviluppi formali ma
elabora la ripetizione sempre leggermente variata delle medesime
cellule musicali, tendenza al mono-tematismo, con l'intera visione
d'insieme dei frammenti ripetuti che fa pensare a un mosaico
bizantino. Nella scrittura orchestrale, come accadrà in Da una
casa di morti, sono preferite le sonorità acute e basse, a scapito
delle sonorità nel registro centrale, quasi a non voler interferire
nelle linee vocali che non sono quasi mai raddoppiate: il canto
appare, di conseguenza, incorniciato, in alto e in basso, dalla
strumentazione che non lo sovrappone. Nell'orchestrazione assume una
spiccata evidenza il contrasto tra l'asciutta trasparenza e la tesa
massa sonora, che in alcuni momenti assume il carattere d'una
tagliente violenza: «la scultorea essenzialità delle linee fa
pensare a profondi "intagli" nel vuoto o alla
"costruttività del colore" nei pittori fauve, e al
loro disinteresse per il chiaroscuro» (Pulcini).
Se il contrappunto risulta ridotto al
minimo, con l'eccezione dell'episodio per organo solo, ove i canoni,
nell'inseguirsi rapidissimi, sembrano impazziti, tutta la dimensione
vocale della Messa glagolitica si caratterizza per la
propensione all'eccesso, il registro acuto fino allo spasimo, nelle
invocazioni o negli effetti parlati, i fuggevoli accenti di
devozione. Non meno incisiva, nella sua determinazione, la scansione
ritmica, per lo più governata da un vigore primitivo e barbarico,
irrefrenabile, del tutto innovativo rispetto alla tradizione,
all'abituale atmosfera religiosa. Ed il culmine lo si coglie «nella
sezione centrale dello Svet (Sanctus), in cui l'orchestra,
fra festosi scampanìi, scandisce un orgiastico ritmo rock (che
inizia dopo le parole Gospod, Bog Sabaoth) interrotto ad
intermittenza dalle esclamazioni del coro. Nel segno di un ritmo
solitamente poco consono allo spirito di una messa è anche
l'Intrada finale, che costituisce la firma in calce all'opera:
una di quelle firme che bucano il foglio da parte a parte»
(Pulcini).
Articolata in otto sezioni, di cui tre
esclusivamente orchestrali e cinque corrispondenti alle parti
tradizionali della messa, la partitura della Messa
glagolitica si apre con l'Introduzione di carattere
festoso, quasi ad accompagnare l'ingresso del sacerdote in una
cerimonia liturgica: il brano è bipartito, con due motivi
contrastanti nella parte iniziale, che si alternano a blocchi, sino
ad un accelerando delle percussioni, per poi dissolversi all'avvio
della seconda parte, pure strumentale (Ùvod): un'energica fanfara di
ottoni e timpani nello schema del rondò, dominato dall'irruenta
scansione ritmica e dall'incessante trascorrere della musica
attraverso varie tonalità, anche lontane, in un clima espressivo di
marcata tensione, che richiama alla mente l'inizio della Sinfonietta.
Il Gospodi pomiluj (Kyrie) più che un ambiente religioso
sembra evocare un dramma umano: al centro della struttura tripartita,
in cui c'è un frequente impiego degli intervalli di quarta e di
quinta, emblematici della pratica melodica morava nel modo misolidio,
c'è il disperato grido del soprano Cristo abbi pietà di noi,
rinnovato tre volte, mentre gli interventi del coro e la
partecipazione dell'orchestra intensificano l'urgenza drammatica, nei
crescendo in fortissimo e nella continua instabilità
tonale. La conclusione, dopo un'esile frase dell'oboe e delle viole,
sfuma nel pianissimo.
Disposta nel succedersi di sei episodi
è, in uno schema prossimo a quello del rondò, la sezione
dello Slava (Gloria): ma la struttura, che formalmente
sembra apparentarsi a quella adottata da Bach nella Messa in si
minore e da Beethoven nella Missa solemnis, viene
sottoposta da Janàček ad un ininterrotto processo di frammentazione
nell'impiego di inusuali impasti strumentali. All'intervento del
soprano subentra quello del tenore entro un ambiente espressivo che
evoca, con il suo impeto popolaresco, certe scene di stampo
folclorico della produzione teatrale di Janàček: ed anche qui le
armonie aspre e dissonanti, i timbri acuminati, i ritmi taglienti
caratterizzano in maniera inequivocabile l'incedere della musica sino
agli esaltati Amen conclusivi, nell'accesa, incandescente
partecipazione del coro, dell'organo e dell'orchestra in tutte le sue
famiglie strumentali.
Vèruju (Credo) è la parte di maggior
ampiezza della Messa glagolitica, e può apparire come una
pagina autonoma, dominata dalla riproposta ciclica della parola
"Véruju" (Credo): al cuore vi è inserito un interludio
puramente strumentale, diviso a sua volta in tre episodi che
intenderebbero raffigurare, secondo l'analisi di Ludvik Kundera, tre
momenti della vita di Cristo: la preghiera nel deserto con l'Andante
cantabile del flauto e del violoncello, l'entrata a Gerusalemme
con la gioiosa fanfara degli ottoni, la Passione con il possente solo
dell'organo. Torna poi in primo piano la vocalità che ripropone il
tema iniziale del coro sino al trionfante Amen rinforzato
dal canto spiegato degli ottoni.
Lo Svet (Sanctus) si apre con un'eterea
e serena introduzione orchestrale, tocca poi al soprano accennare con
dolcezza la triplice enunciazione Svet (Sanctus) che viene
ripresa quindi dal tenore e dal basso, mentre i violini nel registro
acuto ripetono l'incedere d'una specie di marcia che si fa sempre più
ossessiva, trasformandosi, nella progressiva sua accelerazione, in
una danza barbarica, un orgiastico ostinato da moto perpetuo. Per
contrasto, l'Agnece Bozij (Agnus Dei) instaura un'atmosfera
trasparente e limpida, sin dall'intervento del flauto, del corno
inglese e degli archi, ma anche qui Janàček va contro corrente e
non lesina i cromatismi, gli accenti emotivi accalorati, l'urgenza
espressiva, i bruschi accelerando che rendono angosciosa la tinta
malinconica della pagina nell'incalzare delle sincopi e
dell'ostinato, mentre nella vocalità le parole iniziali, ripetute
tre volte dal coro a cappella, vengono sviluppate dai solisti di
canto con il coro che ritorna alla conclusione in un'atmosfera di
disperata instabilità tonale. Seguono due episodi strumentali:
il Solo d'organo, una sorta di passacaglia dinamicamente
vigorosa, con un incedere quasi schizofrenico dei motivi
introduttivi, che dall'Allegro trascorre ad Un poco più
mosso, al Presto, al Prestissimo, collegandosi al materiale
tematico e alla tonalità della sezione
del Crucifixus del Véruju (Credo); e la finale
Intrada che intende raffigurare l'accompagnamento del sacerdote e
della congregazione ecclesiastica dopo la conclusione del rito, e che
Janàček esplicita, secondo l'opinione di Jaroslav Vogel, come «un
ingresso a tempo di marcia nella animata vitalità dell'esistenza,
riaffermata dalla rinnovata certezza della consapevolezza dello
spirito slavo» (1963), e che con gli insistiti cromatismi,
l'alternanza di ottoni e archi, ripropone gli incisi tematici e
l'atmosfera espressiva dell'Introduzione, siglando la cornice ciclica
di quest'opera indubbiamente tipica della inventiva dell'estrema
stagione creativa del compositore moravo, e percorsa da una inesausta
carica innovativa di fortissima suggestione.
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