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Musica: Johannes Brahms (1833-1897)
Testo: dalla Bibbia
Musica: Johannes Brahms (1833-1897)
Testo: dalla Bibbia
- Selig sind die da Leid tragen - coro - Ziemlich langsam und mit Ausdruck [Abbastanza lento e con espressione] (fa maggiore)
- Denn alles Fleisch es ist wie Gras - coro - Langsam, marschmässig [Lento, tempo di marcia] (si bemolle minore)
- Herr, lehre doch mich - baritono e coro - Andante moderato (re minore). Fuga (re maggiore)
- Wie lieblich sind deine Wohungen - coro - Mässig bewegt [Andante moderato] (mi bemolle maggiore)
- Ihr habt nun Traurigkeit - soprano e coro - Langsam [Lento] (sol maggiore)
- Denn wir haben hie - baritono e coro - Andante (do minore). Fuga (la minore)
- Selig sind die Toten - coro - Feierlich [Solenne] (fa maggiore)
Organico: soprano, baritono, coro
misto, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti,
controfagotto ad libitum, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, bassotuba,
timpani, 1 o 2 arpe, organo ad libitum,
archi
Composizione: Baden-Baden, Agosto 1868
Prima esecuzione: Brema, Cattedrale di San Pietro, 10 Aprile 1868
Edizione: Rieter-Biedermann, Lipsia e Winterthur, 1868
Composizione: Baden-Baden, Agosto 1868
Prima esecuzione: Brema, Cattedrale di San Pietro, 10 Aprile 1868
Edizione: Rieter-Biedermann, Lipsia e Winterthur, 1868
La prima esecuzione del «Requiem
tedesco» nella versione definitiva in sette parti ebbe luogo il 18
febbraio 1869 al Gewandhaus di Lipsia, sotto la direzione di Carl
Reinecke: fu un grandissimo successo, al pari di quanto era avvenuto
il 10 aprile (Venerdì Santo) dell'anno precedente nella cattedrale
di Brema per la presentazione del lavoro (dirigeva Brahms stesso), in
una stesura ancora priva del brano che, composto nell'estate
successiva, sarebbe entrato della partitura come quinto numero (esito
negativo era invece toccato ai primi tre pezzi, eseguiti a Vienna il
1° dicembre 1867, e sottoposti subito dopo a qualche
rimaneggiamento). Questa affermazione era la prima che Brahms avesse
conseguito con un lavoro di ampie proporzioni, vistosamente
impegnativo sul piano della scrittura come su quello degli intenti
espressivi e formali; importantissima anche per la sua storia
personale di compositore, in quanto capace di bilanciare l'insuccesso
clamoroso che in quello stesso Gewandhaus aveva incontrato, una
decina d'anni prima, il «Concerto op. 15» per pianoforte e
orchestra, la composizione che, di contro al «Requiem», limita
l'arco formale e stilistico dell'opera di Brahms prima della piena
maturità: simbolo, al di là del suo indubbio valore artistico,
dello sfortunato primo approccio del musicista alla grande forma
sinfonica.
Di fatto, nel catalogo brahmsiano il
«Concerto op. 15» resta l'unico importante lavoro sinfonico negli
anni anteriori al «Requiem»: sino al 1873, l'anno delle «Variazioni
su tema di Haydn», alla grande orchestra il musicista non si sarebbe
più accostato, almeno pubblicamente, se non per unirla al coro e
alle voci soliste in opere come appunto il «Requiem tedesco» e,
immediatamente seguenti, la cantata «Rinaldo», la «Rapsodia» per
contralto e coro virile, lo «Schicksalslied», il «Triumphlied»
(numerati rispettivamente come opera 50, 53, 54, 55). Questo non
certo perché l'insuccesso di pubblico e di critica avesse in qualche
modo intimidito Brahms; le cause erano del tutto interiori, e se il
decennio in cui nacque e si concretò il «Requiem» vide altre
rinunce da parte del compositore, ciò fu sintomo evidente di una
scelta che era insieme presa di posizione polemica ed esigenza
morale. Rinviando ad un futuro magari molto lontano il tentativo
sinfonico, s'imponevano adesso quasi i voti di castità e povertà di
un noviziato sofferto e cocciutamente paziente, per decenni: il
cammino lunghissimo verso una meta da raggiungere, veramente,
«buscando el levante por el poniente» (come dire arrivare alla
sinfonia attraverso il quartetto, il quintetto ecc.), per poter
finalmente esprimere una parola faticosa e faticata, forse però
definitiva, e non più uguagliatile se non mutando radicalmente
prospettive e linguaggi, mondo morale e tecniche; voltando pagina (e
avvicinandosi a cambiar secolo, soprattutto).
Era l'ossessione del secolo, il
problema della forma: la sonata, spinta da Beethoven a lacerazioni
strutturali e orizzonti fantastici quanto meno sconcertanti, sembrava
divenuta per i romantici un'eredità troppo costosa da mantenere, una
castagna bollente con cui inevitabilmente scottarsi le dita.
Specialmente quando l'approccio alla forma avvenisse nel genere
nobilissimo, ma quanto mai problematico della sinfonia; dove
all'ipoteca dei grandi precedenti storici il maggior ribollire del
potenziale sonoro, nelle prospettive orchestrali ottocentesche,
sovrapponeva il rischio di deviazioni estreriorizzanti, descrittive,
coloristiche, nella quasi illimitata alchimia delle combinazioni
timbriche. Proprio sul terreno della sinfonia Brahms poco più che
ventenne doveva andar incontro allo scacco interiore che avrebbe
determinato l'orientamento coerente dei due decenni successivi della
sua vita: perché è dalle ceneri di una lungamente meditata, e
penosamente abortita, sinfonia in re minore che nacque con faticose
trasformazioni il «Concerto op. 15», una volta constatata
l'incapacità, comunque l'impossibilità di realizzare l'intenzione
originaria. Né gli altri due lavori orchestrali di quegli anni, le
«Serenate» Op. 11 e 16, nonostante la freschezza dei risultati
artistici, riuscirono a confermare Brahms nel suo tentativo
sinfonico; che venne dunque rimandato a tempi migliori, preparandolo
con determinata, coraggiosa lentezza attraverso la dura esercitazione
sull'eredità dei classici (in tal senso lo aveva spronato il
consiglio dello stesso Schumann), restringendosi con severità negli
organici della musica da camera. Tace dunque in questi anni
l'orchestra brahmsiana; non tace il pianoforte, che però,
abbandonata per sempre la sonata dopo i quattro esperimenti degli
anni '50, si limita ad esplorare con profetiche recidive il regno
della variazione (sotto il cui segno si sublimerà, col finale della
«Quarta», il cammino sinfonico brahmsiano).
Ma se Brahms inseguiva e perfezionava
il dominio della forma sotto il segno della classicità nell'opera
cameristica, anche sviluppava e sempre più caratterizzava il proprio
linguaggio in quella vocale: dove gli era più agevole coltivare,
proseguire, sfruttare e ampliare i due filoni lessicali che tanto
diffusamente avrebbero informato, in tutte le fasi della sua attività
e sotto le più diverse connotazioni poetiche ed estetiche, quasi
ogni pagina sua, il corale e il «Lied». È in questa dimensione che
si elabora l'humus melodico e armonico che troveremo alla base del
«Requiem tedesco»: una scelta operata in fondo con naturalezza,
così come con naturalezza Brahms aveva sposato la causa ideologica
che macroscopici fraintendimenti dei suoi avversari, non meno che di
certi suoi sostenitori (e fra questi il grande Hanslick), avrebbero
poi tacciato o contribuito a far tacciare di «reazionaria», e che
con quegli stessi orientamenti linguistici è certo per più rispetti
legata.
Gli anni '60, infatti, si aprono per
Brahms con un gesto «pubblico», la firma apposta ad un manifesto
contrario alla scuola «Neotedesca»; il cui corifeo è Liszt, il
Liszt dei grandi poemi romantici, dove le ragioni dell'elaborazione
formale si sottomettono all'urgenza della espressione, e più
vistosamente alla tentazione descrittiva del «programma»
letterario; ma anche il Liszt che scioglie, o stempera, l'emozione
religiosa in ampie composizioni sacre e oratoriali, informandole di
un misticismo cattolico oggi per noi suggestivo quanto mai, per un
Brahms, allora, probabilmente sgradevole, fin indecente quanto la
veste talare che l'ungherese andò a cercarsi poi, fra peccati e
suggestioni controriformistiche, in una Roma che oltre ad essere la
città dei Papi, si preparava pure a diventare il teatro delle prime
gesta di D'Annunzio adolescente (e non è tanto paradossale, a
pensarci bene, che Brahms abbia potuto apprezzare invece il
«cattolicesimo» del tutto diverso della «Messa» di Verdi). E gli
anni '60 sono, soprattutto, gli anni di «Tristano»: e i maestri
romantici, quasi tutti, sono scomparsi dalla scena della vita, e fra
di loro quello che per pochi, importantissimi anni, aveva vegliato
sulla giovinezza di Brahms, Robert Schumann. L'invadenza di istanze
teatrali, comunque contenutistiche, tutt'uno con l'estenuata tensione
cromatica dell'armonia tristaniana, forse anche un sentimento
religioso che inevitabilmente marciava in direzione della decadente
sensualità del «Parsifal»: questo il nemico da battere, o comunque
qualcosa da cui differenziarsi, per poter essere se stessi. «Non è
possibile sottrarsi a questo influsso del presente che io sento
nefasto e non tradire la musica che mi è necessaria, e che io voglio
salvare dal tempo? Non la musica che mi impongono gli altri, ma
quella cui aspira tutto il mio gusto, la mia coscienza, la mia
profonda volontà?».
Identità individuale, per Brahms non
meno che per qualunque uomo del secolo XIX, era anche coscienza
dell'identità della nazione, quella germanica nel caso specifico,
che al profondo, naturale umanesimo di lui non pareva potersi
separare, in musica come altrove, dalla continuità della tradizione.
E tradizione, in tal senso, significava, magari scavalcando
Beethoven, Bach e Haendel, la polifonia a cappella di Heinrich
Schùtz, la moralità severa di tre secoli di Riforma, nutrita di
contrappunto e di corale; Brahms il «progressivo», come lo avrebbe
salutato il padre della musica radicale del nostro secolo, mira
adesso a «salvarsi dal tempo», saldamente ancorato alla sicurezza
di un linguaggio consacrato dalla storia, per poter poi, senza
crociate estetiche e ambizioni filosofiche, additare alla musica
principi organizzativi non ancora esauriti, capaci di germinare in
futuro proprio linguaggio di imprevedibile novità. Come dunque
Brahms prepara il dominio superbo della forma seguendo la scia del
classicismo viennese, cosi segue con autentico entusiasmo la
Bach-Renaissance, la Händel-Renaissance, divorando via via che
escono a stampa, i volumi delle edizioni complete dei due maestri,
seguendo nell'avido e gioioso ritorno alle fonti la scia del grande
pioniere di questa operazione, Felix Mendelssohn-Bartholdy (giusto
lui, un quarto di secolo prima, aveva posto quello che parrebbe
essere il più autorevole precedente del «Requiem tedesco», quella
«Symphonie-Cantate nach Worten der heiligen Schrift» intitolata
«Lobgesang» (Canto di lode).
Lo spirito del «Requiem», al pari
dell'opera mendelssohniana, riconduce dichiaratamente alla civiltà
protestante tedesca. Nel titolo, che non ha certo bisogno di
commenti; nella scelta del testo, anche questo messo insieme «su
parole della Sacra Scrittura», che oltre ad essere parola di Dio è
anche pietra miliare, nella versione tedesca di Martin Lutero,
dell'unificazione linguistica della nazione; nei significati
religiosi che i frammenti biblici sembrano sottolineare, proponendo
una meditazione sulla morte e la salvezza eterna certo non
grettamente confessionalista, ma chiaramente radicata nella teologia
protestante; nei connotati stilistici del tessuto musicale, al primo
ascolto riconducibili con facilità agli interessi culturali e agli
orientamenti artistici cui si accennava dianzi, con palese evidenza
di certe valenze espressive nello stesso ricorso a questa o quella
«forma» storica (la funzione dei fugati, per esempio, posti sempre
come coronamento risolutivo, persin catartico, della tensione
accumulata in determinate sezioni del «Requiem»). Quello che
l'opera brahmsiana non pare se non in minima misura riprendere dai
maestri ideali del passato è il drammatismo che, sia pur sublimato e
assolutamente indenne da esteriorità teatrali, anima tante pagine
degli oratori haendeliani come delle «Passioni» di Bach, e che
puntualmente ricompare nello stesso Mendelssohn: la moralità, la
filosofia della musica così coerentemente presidenti a tutto il
cammino creativo di Brahms, nonché trattenerlo a distanza, più che
rispettosa, sdegnosa dal teatro, non gli lasciarono toccare che di
striscio lo spirito stesso dell'oratorio, pur tanto amato nei
frequentatissimi capolavori del passato. Di fatto, il «Requiem
tedesco» sembra essenzialmente postulare una dimensione «liturgica»,
ancorché spontaneamente laica: puramente ideale, del resto, che la
tradizione riformata non concepisce musica «sacra» al di fuori del
canto dell'assemblea, e restringe il concetto stesso di liturgia ad
un evento non codificato, comunque di ruolo secondario.
Significato quasi di «Introito»
sembra svolgere la prima sezione del «Requiem»: la strumentazione,
da cui sono esclusi i violini, disegna con immediata efficacia il
clima espressivo del brano; il discreto intervento dell'organo,
previsto ad ogni buon conto «ad libitum», come semplice raddoppio
dei bassi, anziché sostenere magniloquenze sonore, rifuggite in nome
di una assorta semplicità, sottolinea il senso «liturgico» di
questa sezione. Di essa occorrerà tener memoria quando, nel brano
conclusivo della partitura, lo stesso materiale musicale rivestirà
parole abbastanza simili a queste. La vocalità di questo primo
numero scioglie l'andamento essenzialmente omoritmico, da corale, del
primo versetto, in un discorso più fluido, alle parole «Die mit
Tränen...» (Quelli che seminano con lacrime mieteranno con canti),
mentre al ripieno orchestrale, sostenuto principalmente dagli archi
(contrabbassi, violoncelli «a tre», viole); il gioco delle
imitazioni contrappuntistiche si articola fino a sfociare nella
ripresa delle parole iniziali «Selig sind...» (Beati coloro che
soffrono).
La seconda sezione, forse la più
popolare del «Requiem», utilizza non casualmente un relitto della
mancata sinfonia giovanile, lo Scherzo che, espunto dalla
rielaborazione in forma di concerto solistico, compare all'inizio di
questo brano; il suo carattere funebre, quasi di marcia nonostante la
scansione ternaria, nasce anche dalla trasposizione al modo minore,
senza eccessive modifiche, dello stesso spunto melodico che aveva
introdotto, affidato a successivi interventi degli archi, il primo
numero della partitura: un frammento, secondo quanto rivelò lo
stesso Brahms, del celebre corale «Wer nur den lieben Gott», che il
coro sovrappone alla ripetizione dell'idea tematica già proposta
dalla sola orchestra (gonfia di ottoni, compresa la tuba, mossa dalle
terzine «beethoveniane» dei timpani, arricchita da un'arpa in
funzione tutt'altro che decorativa). Portata ad un crescendo di
estrema incisiva eloquenza, la prima parte dello «scherzo» lascia
il campo ad una sezione contrastante, che al cupo incedere della
prima, modellandosi su parole più liete, oppone una fluida
discorsività quasi liederistica, dove il modo maggiore guadagna in
leggerezza dalla trasparenza della strumentazione. Una brusca
impennata, come un breve recitativo corale, apre la via ad un
monumentale fugato: «Aber des Herrn Wort... - Die Erlöseten...»
(Ma la parola di Dio dimora in eterno. E coloro che soffrono saranno
riscattati). Nel robusto discorso contrappuntistico si insinuano,
imprevedibili, «ristagni» ritmici e armonici tipicamente
brahmsiani, sino al rallentando conclusivo sulle parole «Ewige
Freude» (Gioia eterna).
Un episodio responsoriale, affidato al
baritono solista di contro al coro, apre la terza parte: il tema è
la caducità della vita dell'uomo. Alla compassata espressività
dell'invocazione del solista, oppone un elemento di più bruciante
drammaticità la ripresa da parte dell'orchestra di una cellula
secondaria di quella, una semplice fioritura, trasformata quasi in un
lancinante «memento mori». Un interrogativo, ancora del solista
(«Ma ora, o Signore, come posso consolarmi?»), trova
immancabilmente risposta in un altro ampio fugato corale («La mia
speranza è in te»). Il quarto coro, che Brahms stesso aveva, al
tempo della composizione dell'opera, voluto sottrarre, almeno per il
momento, al giudizio dell'amico Joachim, giudicandolo «la parte più
debole», è in realtà un delicatissimo intermezzo, essenziale nella
sua tersa semplicità a ristabilire l'equilibrio dopo le ambiziose
strutture delle sezioni precedenti, pur non rinunciando, ancora una
volta, al coronamento contrappuntistico. Con esso si lega il
carattere del brano successivo, l'ultimo composto da Brahms, un
«Lied» del soprano solista, dove l'espressività affettuosa della
semplice linea melodica, unita alla lievissima tinta della
strumentazione, non esclude improvvisi ripiegamenti, in cui il
cambiamento di modo dal maggiore al minore può ricordare addirittura
certa scrittura liederistica del Mahler prima maniera.
Il «Requiem tedesco» si avvia alla
conclusione col sesto brano, il più ambizioso e magniloquente,
strutturato in tre sezioni. Nella prima, un recitativo di sapore fra
l'ecclesiastico e il bachiano del baritono prepara, assieme agli
incalzanti interventi del coro, le fiammeggianti prospettive sonore
di quello che può essere giudicato come il «Dies irae» di
quest'opera, destinato a placarsi in un lungo fugato scopertamente
memore della lezione bachiana. La chiusa giunge, pacificante, col
settimo coro, che riprendendo l'atmosfera del primo brano suggella
coi pizzicati degli archi e le pennellate «elisie» dell'arpa e dei
legni la raggiunta fede nella beatitudine della morte.
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